Di Pierre Coppi
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-Testato su PlayStation 3
Un breve viaggio nel passato fino all’incipit di una delle saghe picchiaduro 3D più famose dei nostri tempi, l’ottimo ma spesso troppo bistrattato Dead or Alive!


Ricordate Jurassic Park, vero? Avanti, é impossibile che a quasi 30 anni dall’uscita nelle sale di tutto il mondo non siate mai stati incuriositi al punto di guardare uno dei film più influenti della storia del cinema. Digressioni a parte, John Malcolm, uno dei protagonisti della pellicola, ha una battuta che recita grossomodo come “La Natura trova sempre una via“. Noi lo abbiamo reinterpretato sostituendo Madre Natura con “il Videogiocatore” quando, in piena vacanza estiva, ci siamo ritrovati per mano una PlayStation 3 ed una copia originale (PAL) del primo capitolo di Dead or Alive, quando ancora era sviluppato solamente da Tecmo (si parla di fine 1996 per la versione arcade, 1998 per la versione casalinga) e Tomonobu Itagaki guidava il Team Ninja.

Non vi nascondiamo che l’impatto è stato decisamente scioccante. Sia chiaro, in gioventù abbiamo passato centinaia di ore sul titolo (nostro normale iter con qualunque fighting game), ma si sa, con l’età che avanza e tanti giochi da recensire e di cui parlare ogni giorno, qualcosa deve sempre fare spazio a qualcos’altro nel nostro piccolo hard-disk cerebrale integrato. Innanzitutto, all’avvio, non ci ricordavamo che il gioco fosse così bello da vedere. Certo, la saga di Kasumi e compagnia ha sempre avuto un ottimo comparto grafico, indipendentemente da console e periodi di uscita, ma in tutta onestà, non ci ricordavamo che anche il primo capitolo in assoluto fosse così ben fatto e dettagliato. Modelli poligonali ben definiti, animazioni fluide e convincenti, 60fps costanti, il buon vecchio DOA1 è innegabilmente un gioco invecchiato molto bene.

Non siamo comunque qui per parlare delle, pur notevoli, prodezze grafiche del gioco di Team Ninja. La vera “novità” rispetto ai capitoli più recenti, è da ricercarsi nel gameplay. DOA1 infatti è, pad alla mano, un gioco estremamente differente rispetto a quello in cui si è trasformato a partire dal secondo capitolo (PS2, 2000) e in cui si è progressivamente evoluto fino a raggiungere il recente Dead Or Alive 6 (2019). Laddove gli ultimi capitoli sono titoli votati principalmente all’attacco, che premiano la capacità del giocatore di prodursi in mix-ups, 50-50s e applicare pressure costante agli avversari, il primo Dead Or Alive é un gioco estremamente differente, più lento, più ragionato, addirittura più tecnico se vogliamo, cosa che lo rende paradossalmente più simile, complice anche lo schema a tre tasti (P, K, G) a un titolo della serie Virtua Fighter.

Le combo erano corte, spesso nell’ordine dei 5-hit al contrario dei 10+ odierni, e gli input necessari per effettuare le mosse speciali erano spesso più articolati che non nelle future iterazioni. Prendete Hayabusa, per esempio, e noterete come molte delle sue special necessitino di, giusto per dirne una, una doppia pressione della diagonale bassa/avanti. Anche il dove si combatte era differente: laddove a partire dal secondo episodio le arene sarebbero diventate questi scenari stratificati su più livelli, con transizioni attivabili dai colpi più potenti in grado di scaraventare gli avversari giù da un balcone o da un dirupo. In DOA1 invece, le arene saranno fondamentalmente un mix tra quelle aperte ed infinite dei primi Tekken, e i classici ring di Virtua Fighter, dove però l’ormai leggendario Ring Out è sostituito dalle Danger Zones, aree al di fuori di quella canonica dove una caduta scatena una esplosione in grado di (oltre ad infliggere danni considerevoli) sbalzare l’avversario verso l’alto, aprendolo quindi a potenziali combo in juggle e potenzialmente condannandolo a una veloce sconfitta.

Anche il roster di personaggi giocabili possiede una identità più spiccatamente orientata verso il capolavoro SEGA che non verso l’identità che la serie avrebbe assunto. Certo, le ragazze sono presenti in numero più cospicuo rispetto al titolo di AM2, ma non sono nemmeno paragonabili a quello in cui verranno trasformate. Kasumi, Ayane (fondamentalmente Ryu e Ken del titolo Tecmo), Lei Fang e Tina sono “solo” combattenti, non quegli ibridi tra idol, dolls e sex-symbols dei capitoli successivi, e per quanto già nel primo capitolo fosse presente la tristemente famosa opzione per abilitare il breast bouncing (lo sapete già di cosa stiamo parlando, non perdiamo più tempo del dovuto), gli effetti dello stesso erano praticamente innocui rispetto alle tumultuose ed imprevedibili evoluzioni attivabili settando l’età a 99 nei capitoli successivi. DOA1 era (é), un gioco che si prendeva molto più sul serio di quanto faccia la serie attualmente. Sia chiaro, noi adoriamo la saga, ma é impossibile negare come il titolo originale fosse qualcosa di estremamente differente.

Se anche voi siete appassionati di fighting games, indipendentemente da brand, titoli preferiti, 2D o 3D, e come noi patite un po’ la cronica carenza di titoli disponibili attualmente, provate a dare una chance al Dead Or Alive originale recuperando una copia per PlayStation, Saturn o come parte di Dead Or Alive Ultimate (Xbox), e cercate di apprezzare dove e come si è modificata la serie. Potreste innamorarvi nuovamente.

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